Il divieto di immissioni ed il principio nemo damnum facit qui iure suo utitur
nel "mito" dell’assolutezza accolto dal cod. civ. del 1865.
A
cura del Dott. Maurizio Aloise
Mentre, come si è visto, per
la pandettistica la nozione di limite da cui scaturiva il divieto sulle
immissioni trovava fondamento nella struttura del diritto di proprietà, nella
concezione liberale accolta nel Code
Civil 1804 e successivamente anche nel nostro codice civile del 1865,
l'istituto della proprietà, quale principale e classica manifestazione del
diritto soggettivo assoluto viene ricostruito esclusivamente in chiave
individualistica; la comunità di vicinato viene così a perdere ogni consistenza
e si riduce a fatto sociale irrilevante per il diritto, mentre l'insieme delle
relazioni tra vicini si irrigidisce e trova riconoscimento nel diritto positivo
attraverso lo schema della servitù legale[1].
Da ciò l'affermazione
dell'imprescindibile assolutezza del diritto di proprietà intesa pienamente
come assenza di limiti, come modo di essere del rapporto tra ambito dei poteri
spettanti al proprietario e regime giuridico del bene. Un ruolo sicuramente
preminente assume nella sistematica dei codici liberal-ottocenteschi la
disciplina delle fonti dei poteri del titolare del diritto assoluto, poichè,
l'art.544 Code Civil e l'art.436 cod.
civ. 1865, dopo aver statuito l'assolutezza, come assenza tipica di limiti,
quale regola generale individuano le fonti normative idonee a porre le
eccezioni a tale regola[2].
Il principio fondamentale
del sistema dei codici liberali, per il quale al proprietario sono attribuite
tutte le possibili facoltà di godimento, ossia di utilizzazione e di sfruttamento
del bene, altro non è che l'affermazione dell'assolutezza che nei rapporti di
vicinato si traduce nella previsione che un uso determinato della cosa possa
essere vietato non già in via generale ed astratta, come modo di essere della
proprietà (come avevano ritenuto i pandettisti) ma solo in specifici casi
tassativamente previsti dalla legge. Di conseguenza, l'inidoneità di fonti
diverse dalla legge a porre autonomamente limiti ai poteri del proprietario e
la specialità (nonché la specificità) delle regole poste in tal senso dalla
legge (ossia qualsiasi limitazione prevista dal diritto positivo) rendono le
limitazioni insuscettibili di applicazione al di fuori dei casi contemplati. La
disciplina posta dai codici liberali in materia di proprietà sembra essere
stata preordinata al raggiungimento di due finalità, entrambe interne ad una
concezione individualistica del diritto privato[3]:
l'unificazione nazionale dell'ordinamento giuridico e l'attribuzione alla legge
di una posizione di assoluta preminenza conformemente ai principi affermatisi
in seguito all'ideale della rivoluzione francese[4].
Ciò fu il frutto di precise istanze teoriche e scelte politiche, ma l'esigenza
di individuare un criterio che fosse comunque valido a contemperare i
contrapposti interessi dei proprietari di fondi che si prestano ad usi
incompatibili, vanificò ben presto, almeno nel nostro ordinamento, soprattutto
la seconda delle due richiamate esigenze, giacché l'esistenza di norme di buon
vicinato (anche in Francia, del resto, il diritto consuetudinario era stato
codificato nelle Coutumes) che
attribuivano liceità alle sole immissioni sconfinanti nel fondo del vicino e
derivanti da un uso normale dello stesso, portò la dottrina italiana ad
affermare l'esistenza di alcuni obblighi facenti capo ai proprietari dei fondi
finitimi che, ancorchè non necessariamente insiti nel diritto di proprietà
(come avevano sostenuto i pandettisti), la giurisprudenza ha il compito di
creare quale estensione di norme sulle servitù o sulla responsabilità civile[5].
É chiaro che la determinazione giudiziale del rapporto interproprietario non
poteva limitarsi concretamente a stabilire un regolamento di coesistenza
ispirato a mere ragioni di eguaglianza formale, ma doveva estendersi
sostanzialmente ad una scelta a favore di uno degli interessi confliggenti
secondo le modalità ed i criteri dalla stessa giurisprudenza posti. La concreta
organizzazione sociale del territorio scelta dal giudice come criterio di
valutazione dell'estensione e del grado di meritevolezza dell'interesse
tutelato, determina la concreta conformazione della situazione soggettiva
avente ad oggetto il fondo così il contenuto della situazione dipenderà, per
effetto delle soluzioni elaborate mediante l'arbitrium
boni viri del giudice, dalle forme di utilizzazione in atto nei fondi
vicini[6].
A ciò, si aggiunse presto un secondo criterio che venne definito della
<<necessità>>, individuato in ciò che dovesse essere tollerato
perché imposto dalle necessità sociali assolute e generali in quel dato ambiente,
con la considerazione che il criterio logico per stabilire l'obbligo di
tollerare o respingere l'immissione fosse quello della necessità, e non già
quello della normalità d'uso[7].
Da ultimo, nel corso dell'elaborazione che ha preceduto l'attuale codificazione
(ove è stato poi accolto, come si vedrà, il criterio della normale
tollerabilità), venne proposto il criterio della prevenzione fondato sul
principio prior in tempore potior in iure.
In definitiva, ai fini della valutazione della legittimità o non delle
immissioni si fece riferimento a tutte e tre i diversi criteri, di cui due
obbligatori ed il terzo facoltativo e sussidiario: in primo luogo bisogna tener
conto del requisito oggettivo dato dalle caratteristiche della località; in
secondo luogo va tenuta presente la necessità di contemperare le esigenze della
produzione con quelle della proprietà; infine il giudizio complessivo può
essere integrato facendo ricorso al criterio della priorità di un determinato
uso, che peraltro è facoltativo e sussidiario rispetto ai primi due e non vale
ad escludere necessariamente l'illiceità dell'immissione ed il conseguente
obbligo di eliminarla.
Quel che è certo è che,
stando così le cose, la materia dei rapporti di vicinato, nel periodo
antecedente alla codificazione del 1942, finì per essere non solo il campo su
cui praticamente venne posto in discussione il principio della insindacabilità
dell'esercizio dei poteri attribuiti al privato, ma anche quello in cui svolse
un ruolo determinante proprio l'officium
iudicis a cui la codificazione del 1865, pur preoccupandosi di ribadire la
supremazia della legge in materia di proprietà, finì per rimettere la soluzione
dei conflitti interfondiari attraverso l'applicazione di criteri creati, nel
silenzio della legge, dagli stessi giudici[8].
Ma nel dibattito recente
sulla teoria giuridica della proprietà sono emersi orientamenti contrapposti
tra chi sottolinea gli elementi di continuità che la struttura della categoria
presenta nelle diverse fasi storiche, e chi invece pone in rilievo il carattere
radicale della frattura operata dalla giurisprudenza degli inizi del novecento
rispetto, in particolare, alle codificazioni liberali del secolo XIX[9].
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[1] SALVI, Le immissioni industriali, cit., p.25.
[2] SALVI, Le immissioni industriali, cit., p.56; LOJACONO, Immissioni, in Enc Dir., XX, 1970, 168 ss.
[3] PERLINGIERI, op. cit., p.46.
[4] GAMBARO, op. cit., p.77.
[5] TRAISCI, op. cit., p.14ss.
[6] SALVI, Le immissioni industriali, cit., p.65.
[7] SCALISI, Immissioni di rumore e tutela della salute, in Riv. Dir. Civ. , 1982, I, 127 e 140.
[8] PROCIDA MIRABELLI DI LAURO, Immissioni e rapporto proprietario, Esi, Napoli, 1984.
[9] SALVI, Le immissioni industriali, cit., p.21.