La formazione della decisione internazionale dello stato

a cura del Dott. Maurizio Aloise

 

Sommario: Presentazione - Lo stato e i trattati internazionali dallo statuto albertino all’italia repubblicana - § 1. La direzione politica estera nel periodo statutario: competenza regia e ruolo del Governo nella formazione dei trattati internazionali - § 2. Forma solenne di stipulazione dei trattati internazionali e la problematica degli accordi in forma semplificata nell’epoca statutaria - § 3. La portata giuridica dell’assenso delle Camere e l’art.5 dello Statuto Albertino - § 4. Sovranità popolare, principi internazionalisti e procedimento di formazione della decisione internazionale dello Stato nella Costituzione repubblicana - Il potere estero secondo il dettato costituzionale - § 1. Il trattato come mezzo per la pace e per l’attuazione dei valori costituzionali - § 2. La decisione sui trattati nel più vasto ambito delle decisioni in politica estera - § 3. La nozione di atto politico relativo alla sicurezza dello Stato ed alle relazione internazionali - § 4. Il ruolo del Parlamento nella conclusione dei Trattati e l’art.80 Cost. - § 5. Rapporti tra Parlamento e Capo dello Stato - § 6. Rapporti tra autorizzazione alla ratifica e ordine di esecuzione del trattato - § 7. Forme di controllo parlamentare diverse dall'autorizzazione alla ratifica riguardo ad impegni internazionali assunti dall' Italia in materia militare - § 8. Il problema degli accordi in via semplificata ed il depotenziamento dei poteri presidenziali - Corte costituzionale e decisioni internazionali - § 1. L’attività internazionale dello Stato di difesa estera ed il controllo giurisdizionale - § 2. La competenza della Corte Costituzionale rispetto alle leggi di esecuzione di trattati internazionali - § 3. (segue) Gli orientamenti generali della Corte Costituzionale - § 4. (segue) I parametri di legittimità delle norme di esecuzione dei trattati - § 5. I particolari principi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alla Unione Europea - Conclusioni: Nuovi strumenti di tutela e di controllo in una prospettiva de iure condendo - § 1. La democratizzazione dell’attività pattizia nella costituzione attraverso le regole della trasparenza e del pluralismo istituzionale - § 2. Sovranità e decisione democratica - § 3. I lavori della Bicamerale e la nuova disciplina degli accordi internazionali: a) le nuove disposizioni relative all'appartenenza dell'Italia all'UE - § 4. (segue) b) la nuova disciplina degli accordi internazionali: in particolare il referendum abrogativo della legge di autorizzazione alla ratifica - § 5. (segue) c) competenza delle Regioni in materia di accordi internazionali.

 

(estratto)

 

 

Presentazione

La stipulazione di un trattato internazionale si concreta in una serie di atti che, in quanto compiuti da organi interni, tramite procedure regolate dal diritto interno, hanno l'effetto di determinare la validità del trattato rispetto al sistema giuridico interno. Ma il ruolo che gli organi dello Stato svolgono in merito, come tutori e fautori della sovranità popolare cui si ispira la nostra Costituzione, è continuo oggetto di attenzione da parte dei giuristi.

Tema di fondo della riflessione è il problema della pace che si presenta come un valore centrale in una situazione di crescente rischio come quella attuale. Ci si interroga su quali possano essere gli strumenti realmente idonei ad esprimere la volontà dei popoli, a consentire la loro diretta partecipazione a decisioni che coinvolgono i valori essenziali di una società democratica, come quello, appunto, della pace. Tre sono le questioni da affrontare: quali sono i mezzi di intervento efficaci a sospendere le decisioni già prese; quali siano gli atti di competenza dello Stato in materia di trattati internazionali e le forme della loro efficacia nell'ordinamento interno; individuare quali forme può assumere un riconoscimento della sovranità dei popoli in campo internazionale. Lo strumento giuridico capace di incidere sull'efficacia operativa delle decisioni prese dal Governo è il referendum. Bisogna esaminare se su un piano giuridico-costituzionale è ammissibile un tipo di referendum consultivo o deliberativo in materia, ed esaminare, quindi, quali strumenti costituzionali nuovi siano più idonei a contrastare il formarsi di decisioni nazionali che minaccino la pace. Se, cioè, sia possibile porre fin da ora le premesse di un potere democratico che rispetti ed affronti questioni vitali come quella della pace.

Si pone a questo riguardo il problema della modifica dell' art.75 Cost. che sottrae al popolo l' intervento rispetto ai trattati internazionali.

 In merito alla formazione dei trattati la Corte costituzionale ha, innanzitutto, affermato l'esclusiva competenza degli organi dello Stato con esclusione di ogni competenza regionale. Anche per quanto riguarda l'esecuzione dei trattati nell'ordinamento italiano la Corte ritiene che la relativa competenza spetti allo Stato. Si deve però ritenere che la competenza esclusiva dello Stato è tuttora giustificabile solo per quanto riguarda la stipulazione dei trattati e la decisione se essi debbano avere forza nell'ordinamento interno; l'ulteriore fase di attuazione degli accordi ricade, invece, sotto le competenze costituzionalmente ripartite e quindi anche nelle competenze regionali.

La sentenza della Corte costituzionale 19 dicembre 1984, n.295 (nella quale la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 20, penultimo comma, della legge 21 giugno 1975 n. 287, in relazione all'art. 72, comma 4, Cost.) afferma che il divieto di approvazione in via decentrata da parte delle commissioni parlamentari in tale ultima norma sancito per quanto riguarda l'autorizzazione alla ratifica non può non valere anche per l'ordine di esecuzione, allorché questo sia emanato in mancanza di previa autorizzazione alla ratifica e in presenza di una disciplina pattizia che "verte su materia che lo stesso organo legislativo ha espressamente attratto nella propria sfera". Più in generale, con riferimento all'ordinamento costituzionale italiano, deve essere affrontato il problema dei rapporti tra autorizzazione parlamentare, ratifica e ordine di esecuzione dei trattati internazionali e dei limiti alla stipulazione in forma semplificata, dedicando particolare attenzione alla prassi degli interventi successivi del Parlamento volti a sanare la circostanza della mancata autorizzazione preventiva alla ratifica di trattati internazionali stipulati dall'esecutivo nelle materie di cui all'art. 80 Cost.. A tal proposito viene rilevata la particolare inidoneità' dell'ordine di esecuzione ad assumere il valore di sanatoria ex post. Vanno infine analizzati gli effetti che sul piano internazionale vengono a prodursi allorché viene dichiarato costituzionalmente illegittimo l'ordine di esecuzione di un trattato internazionale. La conclusione cui si perviene relativamente a tale profilo è che non rileva, ai fini della validità del trattato sul piano internazionale, l'annullamento dell'ordine di esecuzione operato dalla Corte costituzionale, quando la volontà del Parlamento di aderire all'accordo stesso sia stata manifestata in modo esplicito.

Va affrontato il problema della determinazione della competenza, ex art.134 Cost., della Corte costituzionale in ordine alla propria sindacabilità della conformità alla Costituzione delle norme poste da leggi costituzionali e di quelle norme di legge che danno piena ed intera esecuzione ai trattati internazionali. La stessa Corte ha affermato la propria competenza per quanto concerne le norme costituzionali che contrastino con i principi supremi dell'ordinamento costituzionale, intendendo per principi supremi il diritto costituzionale di difesa, la sovranità popolare, la reciproca sovranità ed indipendenza dello Stato e della Chiesa. Per quanto concerne la sindacabilità delle norme di esecuzione dei trattati internazionali la Corte ha un parametro di soluzione corrispondente a quello già citato.

Del resto debbono essere analizzati anche i casi in cui, in presenza di una violazione dell' art.80 Cost. da parte dell'Esecutivo, le forme di controllo parlamentare siano avvenute in modo di verso dall' autorizzazione alla ratifica, riguardo ad impegni internazionali assunti dall' Italia in materia di politica militare. L'indagine si basa sull'analisi sia dei testi delle Convenzioni che dei lavori parlamentari precedenti o successivi alla conclusione degli accordi, tenuto conto dei più importanti commenti dottrinali. A riguardo possono distinguersi due diversi orientamenti della prassi:

- nel primo si evidenziano gli accordi in esecuzione del Patto del Nord Atlantico, in relazione ai quali si è manifestato un mutamento di tendenza nei rapporti tra il Governo e le Camere. Se il Parlamento, infatti, non ha mai potuto esercitare le proprie prerogative in occasione dei primi accordi, successivamente (come nel caso dell' installazione dei missili "Cruise" a Comiso) proprio il Governo ha chiesto alle Camere l'esame preventivo delle linee generali della decisione riguardante il piano di ammodernamento adottata dal Consiglio Atlantico;

- nel secondo si pongono i casi in cui è stata data provvisoria esecuzione ai trattati stipulati per l'invio di corpi militari all'estero. Tali convenzioni hanno presentato aspetti comuni: si è sempre trattato di accordi urgenti, rispetto ai quali, cioè, la tempestività dell'esecuzione rappresentava condizione essenziale per l'espletamento dell' impegno. Mentre da un lato il Governo ha sempre sottolineato tale carattere di urgenza, ancipite è stato l'atteggiamento del Parlamento, dovuto a precise scelte politiche. Se, infatti, in relazione al caso delle tre dragamine in missione nello stretto di Tiran nella Primavera del 1982 e in occasione di altre dragamine inviate nel Golfo di Suez, solo l' opposizione si era erta a paladina delle garanzie costituzionali previste dagli articoli 72-80, in occasione della prima e seconda spedizione a Beirut, nell' Autunno del 1982 nessuna voce si è levata a protestare contro un'azione di politica estera militare avvenuta in violazione del dettato costituzionale.

L'esame dimostra, perciò, che il sistema di controllo parlamentare risulta ormai superato. Anche se spesso il dettato costituzionale non è affatto seguito, oggi, le Camere chiamano il Governo a rendere conto delle proprie azioni. Inoltre, anche l'Esecutivo, che in passato si era autoappropriato di poteri spettanti costituzionalmente alle Camere, ha promosso contatti con il Parlamento per ottenere un consenso che ne rafforzi l'azione.

Inoltre, ricordato che la nostra costituzione ha riservato al Capo dello Stato il compimento dell'atto formale di ratifica dei trattati internazionali (anche se in taluni casi questa deve essere preceduta da un provvedimento legislativo ad hoc che tale provvedimento autorizzi) si rileva che la prassi da tempo instaurata in sede governativa, risulta diversa rispetto al procedimento e ai relativi tempi di attuazione. Infatti una volta entrata in vigore la legge di autorizzazione alla ratifica di un determinato accordo internazionale, l'esecutivo interviene ex novo nell'intera questione e viene sostanzialmente lasciato arbitro di procedere o meno al deposito dello strumento di ratifica e quindi di fare aderire l'Italia all' accordo.

Un’analisi della dottrina e della prassi in materia, mostrano come l' intervento parlamentare, nei casi previsti dall'art.80 Cost., determini una forma di vera e propria cooperazione alla volontà' internazionale dello Stato. Da ciò discende la possibilità per le Camere, nel corso dell'approvazione della legge di autorizzazione alla ratifica, di incidere sul testo del trattato. Alla luce di una tale ricostruzione si chiarisce come l'intervento "garantista" del Presidente della Repubblica possa e debba risolversi nel rifiuto assoluto di perfezionare l'accordo internazionale ove, versandosi in una delle ipotesi previste dall'art.80 Cost., manchi la previa autorizzazione parlamentare. Acchè la funzione di controllo del Capo dello Stato possa pienamente spiegarsi occorre che questi partecipi alla conclusione di tutti i trattati ed accordi internazionali (anche di quelli per i quali non sia richiesta la legge di autorizzazione alla ratifica). La portata generale dell'intervento presidenziale, si conclude, emerge del resto chiaramente dalla interpretazione delle norme costituzionali e dalla lettura dei relativi lavori preparatori.

Ed anche se iniziative come quella dell' installazione dei missili a Comiso provocano situazioni del tutto nuove ed eccezionali sul piano politico-istituzionale da rendere necessario l'intervento diretto di tutti i cittadini, lo strumento da adottare dovrebbe essere quello del referendum.

I problemi da affrontare sul terreno della difesa della pace si connettono, infatti, con la difesa dei "nuovi beni", di cui la pace è il primario. In questa direzione ha assunto un significato notevole il "referendum autogestito" e la proposta di raccogliere le firme necessarie intorno ad una proposta di legge di iniziativa popolare che istituiva un referendum sulla scelta di installare i missili a Comiso, e modificava l'art.80 Cost., inserendovi nuove garanzie sulla tutela del diritto alla pace insieme a nuove procedure sulle decisioni che investono la partecipazione italiana a trattati militari.

Il nodo da sciogliere resta la natura dei controlli cui in linea di principio potrà essere sottoposta l’attività internazionale dello Stato riguardante la difesa esterna. Bisognerà quindi verificare la fondatezza dell’assunto che vorrebbe tale settore interamente sottratto al controllo giurisdizionale in quanto ricompreso nel più vasto genus dell’azione politica dello Stato tradizionalmente ritenuta sindacabile in sedi diverse: dalle Assemblee rappresentative e dal corpo elettorale in occasione dei rinnovi elettorali.

Nella giurisprudenza della Corte Costituzionale è ricorrente l’affermazione dell’insandacabilità delle affermazioni di carattere politico, delle valutazioni fatte dal legislatore nell’esercizio del potere discrezionale allo stesso consentito entro i limiti segnati dall’ordinamento, delle scelte politiche in senso lato operate dal legislatore sotto la sua responsabilità, della scelta dei mezzi più idonei al perseguimento di taluni fini dell’ordinamento.

Tuttavia, la stessa Corte precisa che la regola dell’insindacabilità perde consistenza laddove le scelte operate dal legislatore siano in contrasto con i principi e le norme della Costituzione.

Sul punto si registra una certa continuità degli orientamenti interpretativi posto che l’atteggiamento di autolimitazione da parte di giudici nei confronti degli atti del potere estero appare sostanzialmente immutato rispetto all’atteggiamento dell’ordinamento statuale precedente la nascita della Repubblica, in cui la politica estera costituiva una prerogativa sottratta ad ogni controllo giurisdizionale.

Sulla base di una tale impostazione dovrà dunque, vagliarsi il grado di validità delle proposte di riforme avanzate dalla Commissione Bicamerale per le riforme istituzionali alla luce anche degli esempi comparativi che si possono trarre dagli ordinamenti stranieri, soprattutto alla stregua della soluzione adottata dalla Costituzione britannica, nonché verificando la portata derogatoria delle disposizioni relative all’appartenenza dell’Italia all’Unione europea.

 

 

Lo stato e i trattati internazionali dallo statuto albertino all’Italia repubblicana

§ 1. La direzione politica estera nel periodo statutario: competenza regia e ruolo del Governo nella formazione dei trattati internazionali.

Lo studio dei principi costituzionali in materia di formazione dei trattati internazionali nell'esercizio della c.d. <<potestà estera dello Stato>>[1], si basa sull'analisi delle regole di diritto interno volte a disciplinare la modalità attraverso le quali lo Stato partecipa alla formazione degli accordi internazionali[2], ovvero, nel gergo inglese, lo studio del treaty-making process [3].

Non v'è dubbio, quindi, che in materia di formazione della decisione internazionale dello Stato assume un notevole rilevanza la distribuzione o l'accentramento delle competenze fra i vari organi dello Stato nel campo della potestà estera con la conseguente caratterizzazione della direzione della politica estera così come essa è venuta profilandosi nei vari periodi storici e nei vari assetti costituzionali.

Volendo tracciare le tappe dell'evoluzione storica che ha caratterizzato la potestà estera del nostro Paese nei vari momenti della sua storia costituzionale non si può che prendere avvio dall'analisi delle disposizioni dello Statuto Albertino che caratterizzano l'assetto istituzionale all'indomani dell'unificazione del Regno d'Italia.

Come è stato rilevato dalla dottrina, "l'assetto centralistico dello Stato, introdotto con l'unità d'Italia, e il protagonismo individualistico che emergeva all'interno della classe politica di fine secolo erano particolarmente evidenti nella conduzione dell'attività internazionale"[4]. Di fatti, la dottrina del periodo statutario non presenta molti lavori sistematici sulla problematica inerente all'intervento parlamentare nella stipulazione dei trattati internazionali ex art.5 dello Statuto Albertino[5].

Nell'ordinamento statutario la politica estera rimase ad esclusivo appannaggio di una "ristretta cerchia di governanti sostanzialmente svincolata dal controllo dell'opinione pubblica sia pure intesa come opinione della classe politica e non come orientamento popolare allora generalmente all'oscuro dell'andamento di tali vicende"[6].

Anche in sede parlamentare i dibattiti sul ruolo delle Camere nella formazione delle decisioni internazionali dello Stato, che pur si arricchirono dell'intervento di illustri professori di diritto costituzionale ed internazionale[7] che ne ravvivarono la discussione con argomentazioni dotte e stimolanti, rimasero privi di ogni conseguenza pratica tanto che solo in casi sporadici l'attività internazionale formava oggetto di decisioni parlamentari e di discussioni all'interno del Consiglio dei Ministri[8].

Ma vediamo in che modo lo Statuto Albertino, all'art.5, aveva disciplinato il ruolo degli organi statutari (Sovrano, Governo e Parlamento) nella procedura di formazione dei trattati internazionali.

A riguardo si rileva, innanzitutto che se, da una parte all'art.3, del Proclama di Carlo Alberto dell'8 febbraio 1949, si riconosceva al Re il ruolo di <<Capo supremo dello stato. Egli comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra; fa trattati di pace, d'alleanza e di commercio ....>>; dall'altra, l'art.5 dello Statuto non si limitò recepire tale direttiva ma si estese la previsione normativa in ambiti ancora più vasti.

Ai sensi della norma statutaria, infatti, non solo si attribuiva al Re il potere esecutivo ma anche quello di fare <<i trattati di pace, di alleanza e di commercio>> dandone semplicemente <<comunicazione alle Camere tosto che l'interesse e la sicurezza dello Stato il permettano ed unendovi le comunicazione opportune>>. Nel suo inciso finale, poi, l'art.5 sottoponeva all'assenso delle camere l'efficacia dei <<trattati che importassero un onere alle finanze o variazione al territorio dello Stato>>.

La prima fase statutaria fu, pertanto, caratterizzata non solo dalla sottrazione  della politica estera alla "trattazione collegiale"[9] tanto delle Assemblee rappresentative quanto dalle sedute consiliari dell'Esecutivo, ma dall'affidamento di tale politica all'esclusiva competenza regia, conformemente alla teorie dei filosofi illuministi per i quali il c.d. potere estero appartiene all'organo cui è attribuito il potere esecutivo, vale a dire il Re.

Non mancarono, invero, nel dibattito dottrinale già agli albori dello Stato costituzionale opinioni contrarie alla concentrazione del <<potere federativo>>[10] nelle mani dell'esecutivo ovvero del Monarca[11]. Nel momento in cui, in seguito ai profondi rivolgimenti che avevano portato alla concessione dello Statuto, veniva messa in discussione la plenitudo potestatis del Re, anche in ordine alla stipulazione dei trattati internazionali, venivano messi in discussione i suoi poteri non considerati come una parte intangibile della sua prerogativa[12].

La Stato ottocentesco, tuttavia, si identificava nella sua politica estera con la persona del sovrano in quasi tutte le nazioni europee[13]. Persino nella stessa Gran Bretagna, a lungo considerata la madre dei parlamenti, la trattazione degli affari internazionali costituiva una prerogativa di pochi soggetti, tanto che ancora sul finire del XIX secolo i dibattiti parlamentari su questa delicata materia erano scarsi anche all'interno del gabinetto di quei ministeri direttamente coinvolti negli affari internazionali che non venivano nemmeno informati delle decisioni prese.[14]

In Italia, il binomio Sovrano-Ministro degli Esteri, ancorchè con una netta supremazia del primo, aveva affievolito il ruolo del Parlamento che per quel che concerne la potestà estera aveva dovuto piegarsi di fronte alla tradizionale posizione di supremazia del Monarca, così radicata che lo stesso Primo Ministro, solo in rari casi era in grado di assumere l'effettiva direzione di tale importante settore dell'attività statale[15].

Nello Statuto Albertino quindi, il potere estero era limpidamente delineato e nell'esperienza statutaria, con l'affermarsi della forma di Governo parlamentare il baricentro delle effettive competenze si spostò più verso l'organo di Governo che verso l'organo rappresentativo anche se, per quel che qui interessa, nel campo della politica estera la Corona continuò a svolgere un ruolo di rilevante portata e di concreta e determinate partecipazione alle decisioni internazionali insieme all'esecutivo del quale, peraltro, restava formalmente a capo nelle materia interne[16].

A differenza degli altri Paesi europei, infatti, dove sotto l'influsso dell'esperienza francese ed inglese, la dottrina spinse per una interpretazione in senso parlamentare della Carta[17], in Italia, il modello parlamentare non si affermerà mai in modo netto e completo[18].

Vari sono stati gli indirizzi interpretativi sul rapporto tra Governo e Parlamento[19] anche se nella materia dei trattati internazionali e della direzione della politica estera, senza dubbio, si finì per accettare il ruolo preminente della competenza regia in considerazione dell'esigenza di assicurare continuità allo svolgimento degli affari esteri[20]. Il Sovrano, quindi, quale Capo dell'Esecutivo esercitava una sicura supremazia sugli organi di indirizzo politico ed un'influenza decisiva nella conduzione della politica estera oltre che sulla direzione dell'apparato difensivo[21].

D'altronde, le caratteristiche e le esigenze della politica estera (che oltre alla continuità richiedeva, unità, segretezza e una specifica competenza)[22], unitamente all'affezione dei sovrani per le cose militari e per la diplomazia nonchè il peculiare rilievo degli affari esteri nel periodo statutario, contribuirono a fare di tale settore quello in cui il Capo dello Stato eserciterà a lungo i suoi poteri. Per dettati statutari e per rapporti di forza reale il peso della monarchia si affermò decisivo nella politica estera dell'Italia prerepubblicana[23].

Il peso esercitato dal Monarca si estrinsecava, infatti, anche nella scelta del Ministro degli Esteri (tratto spesso dalla carriera diplomatica) e del Ministro della Guerra (appartenente per vari anni alle forze armate) oltre che talora nella scelta dello stesso Presidente del Consiglio. Le decisioni più impegnative come è stato rilevato, per la nazione venivano infatti adottate dal sovrano avvalendosi della collaborazione di tali Ministri e dei rappresentati diplomatici di maggior prestigio, ponendo Governo e Parlamento dinanzi al fatto compiuto[24]. In più di una occasione il Sovrano scavalcò anche l'Esecutivo instaurando vere e proprie  forme di diplomazia parallela quella dei propri Governi, a volte addirittura contrapposta a quella dei suoi ministri[25].

Alcune volte, inoltre, il Monarca nel ruolo di esclusivo garante e attore della politica internazionale ha anche provocato, per ragioni di politica estera, le dimissioni del Gabinetto[26] come nel caso delle dimissioni del Ministro Minghetti, determinate dagli avvenimenti che hanno seguito la Convenzione del settembre 1864 con la Francia e di quelle del Ministro Rattazzi, nel 1867 dovute al disaccordo con il Re sulla questione romana[27]; senza contare poi le dimissioni dello stesso Cavour in seguito al contrasto politico con Vittorio Emanuele II dopo l'armistizio di Villafranca. Non bisogna, inoltre, sottacere l'importante ruolo svolto dal Capo dello Stato e la sua influenza sull'attività governativa nell'esercizio del suo potere di esternazione nelle visite estere coperte, tra l'altro, da responsabilità collegiale anche del Governo[28].

Circa il ruolo ed i poteri del Governo in materia di politica estera, varie posizioni dottrinali hanno caratterizzato il dibattito sulla forma di Governo parlamentare adottata dallo Statuto Albertino che, riconoscendo al Capo dello Stato la posizione di soggetto al quale appartiene il potere esecutivo, ha indotto alcuni autori ad affermare che, in realtà, l'ago della bilancia, contrariamente a quanto avveniva nei fatti, dovesse essere spostato dal Re al Governo (non tanto come rappresentante della Camera, quanto come funzionario della Corona)[29]. Ma non v'è dubbio che, dato l'assetto istituzionale previsto dallo Statuto, non era certo facile affermare che con la scelta di un Gabinetto posto sotto la direzione del suo Presidente si intese porre un limite nei confronti della Corona colpendo la prerogativa regia anche nella direzione della politica estera[30]. In realtà, sebbene in tale ambito la posizione regia abbia assunto una incidenza diversa a seconda della personalità del Monarca e dei vari periodi storici, il principio collegiale rimaneva sottordinato al continuum della tradizionale direzione e gestione del potere estero secondo il prevalente principio monocratico[31]. Basti pensare che spesso la politica estera, nonostante specifiche disposizioni (ad es., art., comma 5, r.d. del 1901) sfuggiva alle delibere consiliari anche  per quanto riguarda decisioni politicamente importanti in cui erano coinvolti altri Ministri. Di conseguenza, nonostante le argomentazioni di una parte della dottrina, il Consiglio dei Ministri non fu mai il vero  organo decisionale delle questioni di politica internazionale ma una sede di controllo arretrata di registrazione di scelte già operate dal Re o, tutt'al più, dal tandem Premier-Ministro degli Esteri con l'adesione del Re[32].

Solo in seguito ad una graduale erosione della prerogativa regia la funzione del Presidente del Consiglio dei Ministri, a volta esautorando il ruolo del Ministero degli Esteri, porta ad affermare, nella direzione della politica estera, anche in Italia, come negli altri Paesi (pur con i distinguo necessari derivanti dalle caratteristiche del nostro assetto politico- istituzionale e con le limitazioni e le fluttuazioni delle nostre vicende storiche) favorisce il passaggio dalla supremazia del Re coadiuvato dal Ministero degli Esteri, ad una troika costituita dal Monarca, dal Presidente del Consiglio e dal Ministro per gli Affari Esteri. Ma anche in questa fase il Sovrano mantenne una posizione di supremazia rispetto agli altri membri della suddetta troika[33].

 

§ 2. Forma solenne di stipulazione dei trattati internazionali e la problematica degli accordi in forma semplificata nell’epoca statutaria.

Una volta analizzata la posizione di assoluta supremazia ricoperta nel periodo statutario dal Monarca nella direzione della politica estera, posizione che si attenuò, con il passare del tempo solo in favore dell'Esecutivo e non mai in favore del Parlamento, occorre spostare l'attenzione sui poteri di intervento che Monarca e Governo potevano esercitare relativamente alla ratifica dei trattati internazionali alla cui stipula essi erano pervenuti, cioè "all'atto con cui lo Stato manifesta la volontà di consentire all'accordo e di assumerne gli obblighi"[34]. L'istituto della ratifica, infatti, formatosi all'epoca della monarchia assoluta, aveva subito cambiamenti ed evoluzioni sul piano dei diritto internazionale e del diritto costituzionale con l'evoluzione degli assetti istituzionali[35]. Nello Statuto Albertino, la ratifica si sostanzia formalmente in un decreto nel quale il Re (premesso di aver concesso i pieni poteri ad uno o più rappresentanti per addivenire alla conclusione del Trattato) riporta l'intero testo dell'accordo internazionale, attesta di trovalo corrispondente al proprio volere e l'approva.[36]

Un primo punto che è stato analizzato dalla dottrina riguardo alla ratifica è stato quello della qualificazione giuridica dell'atto di ratifica nel quale accanto alla sottoscrizione del Sovrano comparivano la controfirma del Ministro degli Affari Esteri e degli altri Ministri competenti per materia, oltre che, naturalmente quella del Presidente del Consiglio, avendo il r.d. 25 agosto 1876 n.3289 (art.1) e successivamente il r.d. del 1901 (art.10) prevista la previa deliberazione del Consiglio dei Ministri.

In realtà, stante il diverso ruolo svolto nella formazione della decisione internazionale dello Stato, dai soggetti ai quali mediante le sottoscrizioni l'atto veniva imputato, la ratifica che pur prevede l'intervento accanto al Sovrano degli altri organi dell'esecutivo assume la natura di atto complesso ineguale ovvero di atto in cui intervengono soggetti la cui manifestazione di volontà assume una incidenza diversa[37].

La dichiarazione di volontà del Ministro o dei Ministri, espressa mediante la controfirma del decreto di ratifica benchè concorresse nel perfezionamento giuridico-formale dell'atto, non sminuiva il ruolo di preminenza svolto dal Sovrano. Ma accanto a questa forma solenne, che già nell'intestazione del decreto ribadisce la pienezza dei poteri del Sovrano, si instaurò nella prassi statutaria una forma non solenne o semplificata per la stipula dei trattati internazionali che pose non pochi dubbi interpretativi alla dottrina dei maggiori costituzionalisti. In effetti, se da una parte poteva ammettersi che il Sovrano, esclusivo titolare della potestà estera, potesse delegare la negoziazione con le altri parti contraenti del trattato internazionale (cosa che di fatto accadeva spesso) dall'altra non riscontra unanimi consensi la prassi del Capo dello Stato di delegare la stessa potestà di stipulazione di un trattato al Presidente del Consiglio dei Ministri o al Ministro degli Affari Esteri, che una propria dichiarazione di volontà che si sostanziava nella firma dell'accordo non già della ratifica potevano esprimere la decisione politica dello Stato.

Ciò ove si consideri che la stipula in forma semplificata non era da tutti ritenuta conforme con la disposizione statuaria che attribuiva al Sovrano l'esclusività della potestà estera mentre in tal caso la firma dell'atto si considerava come equivalente alla dichiarazione di volontà dello Stato diretta alla stipula, secondo le norme consuetudinarie stabilite nei rapporti fra gli Stati. Basti pensare che allo stesso capo Stato era riconosciuto persino il potere di procedere in prima persona alla stipula anche quando ne aveva legittimamente delegato i poteri ad un altro organo[38].

Fra le varie tesi proposte[39] quella che riscosse maggior credito giustificava il potere di delega del Monarca e la stipulazione di accordi in forma semplificata proprio in ragione dell'esistenza di una consuetudine internazionale integrativa delle disposizioni costituzionali comune alla maggior parte degli Stati in base alla quale veniva riconosciuto al Ministro degli Esteri, ma anche a qualsiasi altro ministro per la materia rientrante nella sua esclusiva competenza secondo le norme di diritto interno, il potere di stipulare trattati internazionali per delegazione implicita del Capo dello Stato.[40]. Sulle posizioni espresse dall'orientamento dottrinale prevalente ebbe notevole influenza la dottrina tedesca che, come è stato sottolineato dalla dottrina più recente[41], influenzò le posizioni dei nostri costituzionalisti sotto molti aspetti. Di fatti, nell'ordinamento tedesco la dottrina aveva ritenuto che l'Imperatore sarebbe stato legittimato a concludere trattati internazionali in nome dell'Impero ma questa regola, però, non avrebbe avuto un valore assoluto giacchè il Sovrano poteva non solamente dar mandato ai propri funzionari di condurre trattative e concordare un progetto di trattato, ma anche di "munirli di pieni poteri per conchiudere definitivamente il trattato e sottoscrivere l'atto che ne contiene il testo" [42].

Chiaramente la stessa dottrina riconosceva che questa forma non solenne di concludere il trattato non dovesse mai ritenersi ammissibile quando gli impegni assunti nella dichiarazione fossero stati in contrasto con le leggi, con le ordinanze e con le direttive dell'Imperatore, nè quando avessero implicato l'impiego di mezzi pecuniari non ancora concessi dalle leggi di bilancio[43].

In sostanza gli accordi stipulati in forma semplificata non furono pochi, soprattutto nella seconda fase della storia statutaria a partire dal 1870. Secondo la dottrina più recente sul progressivo consolidamento di tale procedura giocò un ruolo determinante non solo il graduale esautoramento delle prerogative del sovrano in favore del ruolo crescente del Governo ma anche l'intensificarsi delle relazioni internazionali e la sempre maggiore complessità tecnica dei trattati[44].

 

Roma, 1999.

 

NOTE



[1] Cfr. m. franchini, La potestà estera, Padova, 1992, 311.

[2] Così v. lippolis, La Costituzione italiana e la formazione dei trattati internazionali, Rimini, 1989, p.9.

[3] Cfr. f. bruno, Il parlamento italiano ed i trattati internazionali dallo statuto albertino alla costituzione repubblicana, Milano, 1997, p.5 ss.

[4] l. chieffi, Il valore costituzionale della pace, Liguori, Napoli, 1990, p.201. Sulle stesse posizioni cfr. H. kogan, La politica estera italiana, Milano, 1965, p.53.

[5] Cfr. f. bruno, Il parlamento italiano ed i trattati internazionali..., cit., p.1, secondo la quale l'opera maggiore e l'unica veramente completa sull'argomento in tutti i suoi aspetti è quella di d. donati, I trattati internazionali nel diritto costituzionale, Roma, 1906.

[6] l. chieffi, Il valore costituzionale della pace, cit., p.201.

[7] f. bruno, Il parlamento italiano ed i trattati internazionali..., cit., p.1, che trai contributi maggiormente significativi al dibattito parlamentare ricorda quello di f.p. contuzzi, autore poi della (voce) Diritto internazionale, in Il Digesto italiano, vo9l.IX, II, Torino, 1898.

[8] l. chieffi, Il valore costituzionale della pace, cit., p.202.

[9] c. de cesare, La politica estera ed i suoi problemi costituzionali, in Storia e politica, 1967, p.347.

[10] L'espressione <<potere federativo>> viene usata da J. Locke nel suo Trattato ..., Cap.I, par.2, nota 5, il quale individua in tale potere un'attribuzione distinta dagli altri poteri e pertinente all'organo cui è affidato il potere esecutivo perchè richiede per il suo esercizio la forza della società.

[11] Cfr. G. MARANINI, Le origini dello Statuto Albertino e i lavori preparatori, Firenze, 1926, p.154.

[12] f. bruno, Il parlamento italiano ed i trattati internazionali..., cit., p.10.

[13] f. bruno, Il parlamento italiano ed i trattati internazionali..., cit., p.11.

[14] G. ghisalberti, Storia costituzionale d'Italia 1848/1948, Vol.II, Roma, 1977, p.275; H. kogan, Opinione pubblica e politica estera: il caso italiano, in aa.vv., Realtà e immagine della politica estera italiana, Milano, 1980, p.2,

[15] l. chieffi, Il valore costituzionale della pace, cit., p.202.

[16] v. lippolis, La Costituzione italiana..., cit., pp.15-16.

[17] G. ghisalberti, Lo Statuto Albertino tra mito e realtà, in Il mito del risorgimento nell'Italia unita, in Il Risorgimento, 1/2, 1995, 227-243.

[18] f. bruno, Il parlamento italiano ed i trattati internazionali..., cit., p.32.

[19] Dalla tesi dell'instaurazione fin dall'inizio del sistema parlamentare, sostenuta da G. Arangio Ruiz nella sua "Storia costituzionale" del 1898 e accolta da veri studiosi, a quella delle due fasi, cioè del passaggio da una monarchia limitata ad un governo parlamentare; così come dalla tesi della forma dualistica equilibrata che conferirebbe un elemento di rigidità non scritto sostenuta da M. Fioravanti (Costituzione, amministrazione e trasformazione dello Stato) a quella di distinti ordinamenti costituzionali che avrebbero caratterizzato l'intero arco di tempo statutario e di correlate forme di governo parlamentare limitato o in senso proprio diversamente orientate.

[20] E. decleva, L'Italia e la politica internazionale dal 1870 al 1914, Milano, 1974, p.41.

[21] H. kogan, Opinione pubblica e politica estera..., cit., p.53; G. ghisalberti, Storia ..., cit., p.275.

[22] A. morelli, Il Re, Bologna, 1899, p.717.

[23] Cfr., f. bruno, Il parlamento italiano ed i trattati internazionali..., cit., p.35, nota 15.

[24] Cfr. l. chieffi, Il valore costituzionale della pace, cit., p.203.

[25] l. chieffi, Il valore costituzionale della pace, cit., p.202, che ricorda i negoziati che sfociarono nell'armistizio di Villafranca condotti personalmente dal Sovrano (avvalendosi di ambasciatori alle sue dirette dipendenze) all'insaputa del Primo Ministro e del Ministro degli Esteri.

[26] f. bruno, Il parlamento italiano ed i trattati internazionali..., cit., p.41.

[27] Sul punto v. romeo, Vita di Cavour, Bari, 1984, p.415.

[28] Cfr. f. bruno, Il parlamento italiano ed i trattati internazionali..., cit., p.42.

[29] V. MICELI, Carattere giuridico del Governo costituzionale con speciale riguardo la diritto positivo italiano, p.11-112.

[30] Cfr. c. chimienti, Il Capo dello Stato e il Gabinetto, Roma 1898, p.113.

[31] f. bruno, Il parlamento italiano ed i trattati internazionali..., cit., p.50.

[32] Cfr. g. negri, La direzione e il controllo democratico della politica estera, in Bonanni (a cura di) La politica estera nella Repubblica italiana, Vol.III, Milano, 1967, p.721 ss.

[33] f. bruno, Il parlamento italiano ed i trattati internazionali..., cit., p.56.

[34] Ibidem.

[35] L. FERRARI-BRAVO, Diritto internazionale e diritto interno nella stipulazione dei trattati, Napoli, 1964, pp.108-124.

[36] f. bruno, Il parlamento italiano ed i trattati internazionali..., cit., p.57.

[37] D. DONATI, I trattati internazionali nel diritto costituzionale, cit., p.150-151.

[38] f. bruno, Il parlamento italiano ed i trattati internazionali..., cit., p.58.

[39] Vi fu chi ritenne che trattasi di una facoltà personalissima del Re per cui sarebbe stata incostituzionale e priva di qualsiasi effetto ogni delegazione (F. LAGHI, Teoria dei trattati internazionali. Parte generale, Roma, 1882);  chi ammise la delega ma sotto condizione che non si trattasse di materia per la quale era richiesta l'assenso delle camere (P. FIORE, Trattato di diritto internazionale pubblico, II ediz., Torino, 1882, 273). Sul dibattito dottrinale v. f. bruno, Il parlamento italiano ed i trattati internazionali..., cit., p.58 ss.

[40] D. DONATI, I trattati internazionali nel diritto costituzionale, cit., p.260-265.

[41] f. bruno, Il parlamento italiano ed i trattati internazionali..., cit., pp.58-59.

[42] P. LABAND, Il diritto pubblico dell'Impero germanico, trad. It., vol.I, p.894.

[43] Ibidem.

[44] f. bruno, Il parlamento italiano ed i trattati internazionali..., cit., p.60.

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